Riforma pensioni: soluzione condivisa tra Governo e sindacati per superare la legge Fornero. Il punto di Luigi Metassi

La riforma delle pensioni oggetto di confronto tra Governo e sindacati. Intervista a Luigi Metassi, amministratore del "Comitato Difesa e Tutela Pensioni".

Riforma pensioni: soluzione condivisa tra Governo e sindacati per superare la legge Fornero. Il punto di Luigi Metassi

Continua il confronto tra Governo e sindacati sul tema della previdenza.  Il prossimo appuntamento sull’agenda è quello del 19 febbraio sulla previdenza complementare. “Siamo all’inizio: il mese di febbraio serve per approfondire i temi, c’è una verifica politica sul tema delle pensioni nel mese di marzo”, ha dichiarato il segretario generale della Cgil Maurizio Landini, a margine di un convegno. Il leader sindacale ha ribadito l’obiettivo della trattativa: “Una  riforma complessiva che offra stabilità per i prossimi anni ad un sistema pensionistico pubblico che dia garanzie ai giovani, alle donne, ai lavori gravosi”. Stando alle dichiarazioni del sottosegretario al Ministero del Lavoro Francesca Puglisi, il Governo starebbe valutando l’ipotesi di un’uscita flessibile con 64 anni d’età e 35 di contributi versati senza ricalcolo con il contributivo per chi si trovi nel sistema misto.

Per Cgil, Cisl e Uil il pensionamento deve avvenire intorno ai 62 anni. A proposito del requisito richiesto sui contributi, il segretario confederale della Cgil, Roberto Ghiselli, ha precisato :”Qualunque ipotesi di uscita anticipata, che per noi deve essere possibile dai 62 anni, deve vedere un requisito contributivo che non superi i 20 anni e deve valorizzare previdenzialmente i periodi di lavoro discontinuo, povero, gravoso o di cura”. La piattaforma sindacale chiede, inoltre, l’uscita anticipata con 41 anni di contributi senza vincoli anagrafici. Le posizioni tra i due interlocutori sembrano molto distanti. Ne abbiamo parlato con Luigi Metassi, amministratore del “Comitato Difesa e Tutela Pensioni” ed ideatore del blog “Il Volo della Fenice”.

Il Governo pensa a 64 anni e 35 di contributi ed i sindacati a 62 anni con 20, ritiene possibile che si riesca ad arrivare ad una soluzione condivisa? 

“Sarò sarcastico: qualora l’intento fosse stato quello di mettere in discussione il pilastro pubblico della previdenza, mi domando se non avrebbero ottenuto miglior risultato lasciando fare ai lavoratori e ai pensionati; nel farci del male da soli siamo un rullo compressore. I 20 anni sono una cosa mentre i 35 ne sono un’altra. I primi costituiscono una necessità tecnica ineludibile, connessa strettamente alla singolarità del rapporto sinallagmatico che si instaura tra lavoratore ed ente previdenziale, mentre i secondi dipendono da tutta una complessa serie di parametri economici proiettati nel lungo termine.

Al massimo si discuterà sulle anagrafiche o se sia necessario alzare l’asticella della contribuzione oltre i 35 anni. Su questo però mi si lasci ricordare che, tanto 62 quanto 64, sono valori ordinali inferiori a 65, età prevista per il pensionamento di vecchiaia dalla legge precedente, mentre il vecchio sistema delle quote, ad oggi, avrebbe richiesto di raggiungere quota 98; tutte cose nei confronti delle quali non ricordo di aver mai colto soverchie rimostranze (questione donne a parte). Più che dei requisiti in se, io mi preoccuperei di pervenire ad un sistema equo e sostenibile, sufficientemente elastico, tanto da riuscire a raggiungere anche chi purtroppo non raggiungerà i dovuti requisiti e che pagherebbe un prezzo insostenibile con la messa a regime del sistema contributivo”.

Quale soluzione le sembra più convincente per l’uscita anticipata?

“Chi parla di quote pure, senza i cosiddetti “paletti”, vive in un mondo fantastico tutto suo. Perfino la “quota 41”, pur non facendone menzione, comporta un paletto anagrafico occulto, dato dalla somma degli anni di contribuzione con quelli dell’istruzione obbligatoria. Posto che andare in pensione undici anni prima dell’età di vecchiaia possa essere ritenuto economicamente conveniente (cosa della quale dubito) chi optasse per la quota 41 non potrebbe vedere la pensione prima dei 56 anni compiuti (la legge fissa a 15 anni l’età minima per accedere al lavoro salariato).

Questo premesso, qualsiasi forma di accantonamento, a maggior ragione se ragioniamo in ottica di investimento quale deve considerarsi l’accantonamento previdenziale in regime contributivo, pretende garanzie per entrambi i contraenti: per l’istituto previdenziale che è chiamato ad investire facendo fruttare il monte contributivo e per il lavoratore che non ha alcuna certezza di poter portare interamente a compimento il piano di accumulo stabilito. Ecco quindi che designare un punto a metà percorso, prima del quale non è consentito realizzare e dopo del quale si ha diritto ad una seppur minima pensione, assume una sua precisa valenza. Senza questo, l’istituto previdenziale dovrebbe accantonare tutto nella cosiddetta riserva tecnica, che serve a garantire la continuità di pagamento delle pensioni e non potrebbe investire per far fruttare il montante accumulato. Dato che ognuno potrebbe realizzare in qualunque momento, tutto quello che l’istituto incassa non potrebbe essere investito ma dovrebbe restare cash, col risultato che, tra quarant’anni, si andrebbe in pensione con una liquidazione dell’ordine delle retribuzioni odierne (faccio notare ai più giovani che quarant’anni fa gli stipendi si aggiravano intorno alle 400.000 lire, pari a circa 200 euro). Spostando per analogia il discorso su una banca o una finanziaria, chi mai affiderebbe i propri risparmi ad un istituto in simili condizioni? A maggior ragione, è auspicabile che ciò non debba mai accadere con la previdenza pubblica.

L’Ape sociale dovrebbe diventare strutturale?

“Ape sociale è materia assistenziale mentre Quota 41 è previdenza. Detto questo, se andasse in porto la pensione di garanzia, Ape sociale diverrebbe un doppione a mio avviso inutile. Piuttosto ritengo che questo evidenzi una volta di più l’urgenza di separare assistenza e previdenza. Vorrei però rammentare che la problematica non è circoscritta alla definizione di requisiti e soluzioni assistenziali. Insieme alle già citate contribuzioni discontinue, occorrono risposte a chi presta lavoro di cura (in larga parte afferisce al mondo femminile), occorre procedere in direzione della parità salariale tra i generi, occorre definire soluzioni per i lavori gravosi e occorre salvaguardare gli ultimi esodati nei confronti dei quali, è bene ricordarlo, sia in occasione della legge di bilancio che del milleproroghe, sono stati presentati emendamenti (sistematicamente respinti) volti a riaprire i termini della VIII salvaguardia per le sole categorie che risultano discriminate, perfettamente aderenti alla problematica, risolutivi nella sostanza e attuabili sotto l’aspetto legislativo, che ora basterebbe riprendere vista anche l’esiguità dell’impegno economico necessario.

Sicuramente occorreranno ancora mesi perché si possa delineare un piano operativo sotto il profilo legislativo; mi domanderei però come si potrebbe continuare a parlare di superamento della legge Monti-Fornero se, nel frattempo e con sorprendente pervicacia, si continuasse a tenerne gli scheletri nell’armadio negando il diritto agli esodati”.

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