Pechino: la seconda giornata di Donald Trump in Cina tra accuse e nuovi accordi!

La seconda giornata di Donald Trump in Cina si apre con accuse alle passate amministrazioni USA e accordi che non colmeranno il decifit americano.

Donald Trump a Pechino, e subito con Xi Jinping

È appena la seconda giornata della visita di Stato di Donald Trump a Pechino, e subito con Xi Jinping sono scintille sul tema dei rapporti economici Usa-Cina. I due capi affrontano “l’altro” tema rovente delle relazioni bilaterali (dopo la Corea del Nord): l’immenso squilibrio negli scambi. Trump spara una cifra ancora più alta di quella che circola abitualmente: l’avanzo commerciale della Cina nell’interscambio con gli USA sarebbe di 500 miliardi di dollari annui.  Sui numeri c’è sempre grande incertezza:  le statistiche sul commercio estero vengono spesso manipolate dai governi, ma in questo caso Trump probabilmente si riferisce al solo interscambio di merci, escludendo i servizi come la finanza e la logistica dove gli Usa sono in attivo). Trump usa un accorgimento diplomatico per dirottare la colpa dello squilibrio commerciale su qualcun altro: Barack Obama. La colpa sarebbe tutta delle passate Amministrazioni Usa che non hanno difeso gli interessi dell’industria nazionale e dei lavoratori americani. La sua conclusione però è comunque che lo squilibrio è insostenibile

La Cina: la locomotiva che fa da traino alla crescita economica mondiale

Xi gli risponde citando l’immenso volume delle importazioni cinesi dal resto del mondo, oltre mille miliardi annui, a riprova che la crescita economica del gigante asiatico ha un effetto traino sulle altre nazioni. Il che è vero: le ultime rilevazioni del Fondo monetario internazionale ci dicono che se la crescita mondiale è in accelerazione, la causa numero uno è la locomotiva cinese. Ma rimane la gravità degli squilibried a questo punto Xi abbraccia anche la più classica teoria del liberismo economico, che dai testi di Adam Smith e David Ricardo insegna come gli squilibri commerciali nascano da vantaggi comparativi, specializzazioni di ogni paese nelle produzioni in cui è più competitivo, e alla fine questi squilibri nelle partite correnti vengono azzerati dai flussi di capitali. E’ esattamente quel che accade da anni nei rapporti Cina-Usa visto che Pechino reinveste buona parte del suo attivo commerciale in buoni del Tesoro Usa. E tuttavia questo nulla toglie all’impatto distruttivo che la concorrenza cinese ha avuto sul tessuto industriale e sull’occupazione americana (e di altri paesi industrializzati, per esempio in Europa).

Solo nove miliardi dollari per colmare il deficit americano e le strategie di investimento invariate.

Alla fine Xi aggiunge i rituali impegni di riforme strutturali che rendano il mercato cinese più aperto (generalmente disattesi). Regalerà all’ospite il trofeo simbolico di nuovi accordi e contratti per un valore immediato di 9 miliardi di dollari cioè una goccia nell’oceano del deficit americano. Nulla di veramente nuovo sotto il sole. I temi posti da Trump sono reali, però. Il presidente americano è sprovvisto di una strategia adeguata per riscrivere le regole del gioco della globalizzazione, ma queste regole sono oggi favorevoli ai cinesi.  In numerosi settori, arbitrariamente definiti come “strategici”, la Cina accetta sul proprio territorio gli investitori stranieri solo a condizione che si prendano un socio locale paritetico, e gli trasferiscano il loro know how. Ma è una regola, o per meglio dire un privilegio, che fu concesso a Pechino nel 2001 all’epoca del suo ingresso nella World Trade Organization (Wto). Un’epoca che oggi ci sembra lontanissima, in cui la Cina era ancora un paese emergente appena uscito da una situazione di estrema povertà.

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